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L’Arte senza confini

Porsi il problema dei rapporti tra arte e scienza significa partire dal presupposto che l’arte possa essere certe cose e non esserne altre. Significa cioè ipotizzare dei confini. Credo che i confini disciplinari dell’arte siano ristrettezze recenti, che non hanno caratterizzato l’arte nei tempi passati e che bisognerebbe rimuovere. È un’idea che mi fa venire in mente lo Specifico filmico e quei tremolanti elenchi di particolarità che avrebbero dovuto circoscrivere le varie forme espressive (lo Specifico pittorico, quello scultoreo, quello musicale, teatrale ecc) teorizzate mezzo secolo fa per sottolineare le distinzioni tra le arti a partire dalla loro dimensione tecnico-linguistica e pratico-operativa. Necessità catalogatoria più utile ai critici che agli artisti, naturalmente.

Secondo questa visione lo Specifico filmico si sarebbe esaurito nell’inquadratura e nel montaggio. È facile capire che le specificità (e i confini) sono transitorie e legate alle contingenze tecniche e produttive. In che modo si potrebbe spiegare un film come Avatar ingabbiandolo nello Specifico filmico dell’inquadratura e del montaggio?

Attribuire all’arte degli spazi di pertinenza, dei cortili e degli orari in cui le sia permesso giocare senza dare fastidio, ne contraddice la natura in quanto essa ha lo scopo di indagare e definire ciò che ancora non c’è e per farlo richiede libertà. L’arte non è semplicemente un’attività espressiva, ma una ricerca, e la ricerca non ha confini. Queste barriere sono state erette con la presa del potere da parte della borghesia – dopo la Rivoluzione Francese – quando Dio è morto e l’arte ha cessato di essere affresco, statuaria, edificio rappresentativo sede del Potere, ed è andata ad acquattarsi nei salotti dei commercianti e degli industriali, appesa alle stesse pareti delle applique, dei trofei di caccia e dei ritratti dei Grandi Invalidi, trasformandosi in quadri da cavalletto, busti e residenze condominiali: banalizzandosi a orpello e merce.

Quella trasformazione ha fatto credere che esistano confini disciplinari, che fosse legittimo creare artificiosi ambiti di pertinenza dove ghettizzare le attività più pericolose: la pittura con la tela e i colori ad olio, la scultura col marmo o col bronzo, il cinema con l’inquadratura e il montaggio ecc. Intanto si permetteva che le tecnologie diventassero appannaggio dell’industria, che le ha privatizzate a scopi produttivi. Credo che la separazione o l’osteggiata convivenza tra arte e tecnica sia nata così. La fotografia e il cinema sono forme d’arte che nascono da presupposti tecnici, ma anche la Tour Eiffel (un’opera da Archistar ante litteram) nasce dalla messa a punto di una tecnologia costruttiva che tramite essa si manifesta, si definisce ed apre nuovi orizzonti linguistici. Anche il design – che continuo a considerare una manifestazione delle avanguardie artistiche – è una forma d’arte che si relaziona con le tecnologie e con la produzione.

Credo nell’arte come techné, in un’unità indistinguibile di espressione, lavoro manuale, tecnica, mentalità scientifica e progetto. È un’idea antica che sembra aver poco da spartire con la contemporaneità anche se, oggi come nell’antichità classica, siamo immersi in un intreccio di arte, progetto, produzione, espressività, tecnologia, scienza. La loro compresenza è persino sovrabbondante e contraddittoria e forse la nausea di questo eccesso conduce a immaginare un mondo dove ciascuna se ne sta appartata a coltivare particolarità, con la speranza di rafforzare il proprio ruolo. Ma non è così: bisogna accogliere la sfida della molteplicità e del confronto perché il senso si determina interagendo e interpretando, dando una forma sempre nuova al sistema esistenziale e sociale.

La techné è la prima teoria che ha spiegato la necessità di fare bene. Credo che l’arte si sia sempre identificata nella techné, non solo nell’antichità greca, ma almeno fino alla Rivoluzione industriale. Da quando ho deciso di essere artista, non ho mai creduto che l’arte si esaurisse nelle manifestazioni che allora erano in voga: nella pittura a olio, nei segni informali e gestuali e neppure nei cascami del realismo. In seguito non mi sono mai fatto attrarre da correnti e conventicole di vario tipo e neppure dagli stili precotti cucinati per opportunità da critici, galleristi e mercanti.

Ho sempre pensato che l’arte è collocata all’incrocio di espressività, ricerca linguistica, scienza, tecnica e che acquisti senso e significato tramite il progetto, inteso come costruzione razionale di una processo formante. Modo di fare che sintetizzo nella frase: La forma non esiste prima del progetto. Anche oggi continuo a pensare che l’arte non sia un gioco, uno strumento di piacere o un vibratore emozionale, ma che deve accompagnarci verso una rappresentatività alta, e assurgere a momento esemplare tanto più illuminante quanto più è rischioso, non accondiscendente, innovativo.

L’idea di arte come techné rende superflui i discorsi sul metodo interdisciplinare, approccio che peraltro ho sempre reputato essere un pre-requisito, uno strumento del lavoro e della ricerca artistica, utile ma ovvio. Credo che assegnare un ruolo centrale al lavoro interdisciplinare non determini una poetica, ma sia un metodo debole: più che altro un aspetto del problem solving. Quando se ne parla come se avesse la forza di imporre uno stile, o fosse un modo di fare epocale come lo è stata la Prospettiva, si sta mistificando, si sta portando alla ribalta un aspetto dell’operatività artistica con cui impressionare e tentare di guadagnare dei meriti.

L’interdisciplinarità esisteva anche prima di essere accolta nella sfera dell’arte e non è spuntata dal nulla per l’interesse dei designer e degli artisti. Essa è piuttosto – assieme alla sperimentazione e alla ripetitività dell’esperimento – uno dei fondamenti della scienza moderna che è andato avvalorandosi da Galileo in poi. Se da alcuni decenni ha assunto maggior visibilità si deve all’essere diventata un punto di forza del marketing artistico.

Non si può ignorare, per esempio, che la costruzione del Partenone o di una cattedrale gotica abbia richiesto il concorso di tante sapienze, di tanti mestieri e di innumerevoli tecniche: di una prassi e di un metodo interdisciplinare.

La prassi interdisciplinare ha caratterizzato il mio modo di essere artista, ma è stata ed è anche alla base dell’Arte Cinetica e Programmata, del Design e perfino di tutta l’arte contemporanea, addirittura al di là della consapevolezza degli artisti.

Un’identità di approccio che mi fa pensare che tra Arte e Progetto, tra Atte e Scienza vi sia piena identità e non quella stolida opposizione che temono gli pseudo-artisti, quelli che ritengono che l’Arte abbia qualcosa da spartire con i sentimenti, i contenuti sociali, con le loro nevrosi e con la bellezza.

Antonio Barrese