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Se sono uno scrittore

Sono uno scrittore perché sono anzitutto un lettore. Scrivo storie perché intorno ai dieci anni, coi giocattoli e le matite da disegno, i miei genitori decisero di cominciare a regalarmi i primi libri. Storie che sfogliavo per pomeriggi interi, piegato in due sul tappeto del vecchio corridoio di casa: ne conservo un ricordo sbiadito, incantato, radioso, con quell’alone di sogno che sfuma la realtà, consegnandola alla dimensione un po’ falsa e approssimativa del mito. Al punto che non so neppure se ciò che ricordo è tutto vero o se si tratta invece di un’invenzione adulta, posteriore. Ma poco importa. Per ogni cosa c’è un inizio, e non è detto che uno sia migliore dell’altro.

Se sono uno scrittore è perché le immagini di quelle letture pomeridiane sono entrate giorno dopo giorno nel mio corpo, nella mia carne, nel mio sangue. Perché le ho assorbite e metabolizzate, consapevole che la loro consistenza non era affatto inferiore o meno seduttiva delle cose reali che accadevano intorno alla mia difficile età.

Se sono uno scrittore è perché le ho sentite uniche, stimolanti, preziose e liberatorie. Con un abusato e un po’ retorico uso dell’aggettivo possessivo potrei dire che tali immagini furono da subito “mie”, e formavano l’altrove meraviglioso con cui difendermi dai fendenti dolorosi che la vita già assestava. Ero un solitario, all’epoca, un ragazzino introverso e poeta per vocazione. Mi divertiva nascondermi dietro quell’atteggiamento un po’ cupo, poco disposto a fare i conti con gli imperativi dello spirito di gruppo.

Di quelle immagini e di quelle parole m’impossessavo, ripassandole a mente, ricopiandole sui primi quaderni gelosamente conservati, e sillabando lo sconcertante solfeggio dei primi sogni a occhi aperti, esattamente come ora che cerco di apprendere il francese continuo a sillabare sulla carta le prime sonorità di questa lingua difficile ma incredibilmente evocativa.

I libri mi strappavano violentemente alla realtà, mi sottraevano alla vita di famiglia, alla socialità forzata dei miei coetanei. Se sono uno scrittore lo devo alla pacata disubbidienza con cui seppi ostinatamente dire di no alle ripetute preghiere di mia madre a scendere giù in strada, in cortile, e raggiungere i compagni di scuola con la bici, per qualche partita di pallone. Tutta la geografia di cui potevo avere bisogno era in quelle pagine. Lì, e in nessun altro luogo. Un altro – l’essere misterioso e onnipotente che rispondeva alla curiosa definizione di scrittore – l’aveva disegnata per me, e ogni volta era come se per magia fosse capace di farla rivivere all’interno di una grossa bolla cangiante, che mi escludeva dal contesto, rendendomi straniero nella terra dei miei padri. Tutto il mondo – tutti i cieli, e tutti gli oceani, e le foreste buie e le selve cupe e soprannaturali – tutto racchiuso lì, pronto a risorgere al rapido miracolo di una nuova lettura, in quel seducente bozzolo di silenzio dentro cui rinchiudermi e da cui lasciarmi abbracciare.

Se oggi sono uno scrittore è proprio per quel gusto intatto e primordiale, una passione rimasta viva, mai tradita. E perché quella stessa passione mi ha spinto a partire, ad andare lontano, sempre più lontano, alla ricerca di un senso. Roland Barthes parla di un significato che non finiamo di cercare: per anni, secoli, millenni. Un’intera vita quale somma di significati. I significati dell’amore. I significati del dolore. Quelli dell’arte. Del tradimento. Della morte. Ho continuato a scovarli tra i libri, nelle trame delle storie che amo e che perpetuo attraverso la parola, perché le mie letture vivono per “contagio”, e scivolano di bocca in bocca, come una marea imponente, un’algebra che è impossibile arginare, priva com’è di perimetri e di fisse dimore.

I libri sono stati nel tempo i miei unici fedeli compagni di viaggio, con poche altre cose trascinate dietro gelosamente: una valigia, diversi taccuini, qualche penna stravagante e una logora rubrica di numeri telefonici ai quali troppo presto ho smesso di chiamare. Tutto il resto – la preoccupazione di una casa, di uno stipendio, una famiglia, una stabilità, un decoro – l’ho considerato vano. Un impedimento. Un laccio all’ala. La ferita dolorante nell’eterna fuga in direzione dell’Altrove. L’altrove era nei libri. Nei miei libri. E’ lì che sarebbe rimasto. L’altrove che ogni scrittore dovrebbe sempre preoccuparsi di inseguire. Del resto ho imparato a farne a meno. Accorato funambolo sulle corde tese del vuoto, solo nella scrittura mi trovo e mi ritrovo. Solo in essa desidero che gli altri vengano a cercarmi.

I libri hanno camminato con me, hanno marciato al mio fianco, sono stati mio padre e mia madre, la mia nuova sola possibile famiglia. Hanno preso il caffè con me agli autogrill, sorriso ai giovani baristi assonnati con cui scambiavo quattro chiacchiere e raccolto sguardi furtivi di sconosciuti lungo la linea frastagliata del cammino. Sono stati un riconoscimento, una carta d’identità, il fortunato lasciapassare per il regno di Macondo.

Sono libri che hanno fatto le ore piccole, che hanno la pelle smangiata dai minuti, divorati nel sole radioso dei mattini o richiusi nella stellare penombra di mille mezzenotti. Li ho con me, mi accompagnano, si accumulano sui miei scaffali, affollano i miei ritorni e qualche volta li lascio andare con dolore: regalandoli, prestandoli, ma mai perdendoli, perché non è possibile smarrire un libro, esattamente come non si abbandona un amico, un bambino o un cucciolo. I libri conoscono benissimo l’arte di guardarti negli occhi. E sanno quanto fragile può rivelarsi la tua anima.

Se sono uno scrittore lo devo ai libri – a tutti i libri della mia vita, a tutti gli istanti spesi su di essi, e agli istanti di coloro che li hanno scritti, pensati, sofferti. Ognuna di quelle pagine pesa per la testimonianza di tanta generosità. In ciascuna delle loro lettere e delle lingue nei quali sono scritti gorgogliano le gocce rossofuoco di un così prodigioso sangue. Libri della stessa natura della linfa, che scorrono nelle vene limpide o intasate dei nostri giorni, dei nostri anni, tempo cristallizzato in memoria, esperienza, archetipo d’amore.

L’elenco sarebbe probabilmente interminabile e sciocco, oltre che inutile. Nelle fibre del mio essere vi sono tutti. Ma non formano un catalogo né compongono la polverosa sintassi di alcuna biblioteca. E’ un ordine sovversivo, il mio. E i libri sono altro. Altri. Non possono che essere tali. E non parlarmi di storie ancora da finire. O da riscrivere. Mi piacerebbe costruire una casa che avesse per mattoni i nomi di tutti gli scrittori, i personaggi di tutte le mie storie, e rinchiudermici dentro, protetto dal loro calore. O stendere le radici di una robusta quercia di carta su cui arrampicarmi e, come il malinconico eroe di Italo Calvino, tagliare per sempre i ponti con un mondo con cui fatico a stare al passo.

Ma è una tentazione insana, e i libri non sarebbero per niente d’accordo. I libri non tagliano i ponti con la vita, ma li rinsaldano. E’ attraverso i libri che ho appreso l’impossibilità di definirla la vita, nella sua unicità, nella sua essenza più fissa e rimarcata. E’ ad essi che devo la consapevolezza che di vita non ce n’è una sola. Ma cento, mille. Infinite. Come di religioni. Di uomini, di donne. Di passioni. E di contraddizioni. I libri mi hanno spalancato la mente proprio nello scoprire che una sola di queste vite mi sarebbe stata stretta, come una scarpa troppo chiusa su un piede dolorante, o più semplicemente come un unico Paese, una città sola, una patria, un amore. Un colore.

Ho bisogno di infinte vite perché infiniti sono gli attimi che la clessidra ci concede prima di stringere il suo giro. Sul frontespizio di uno dei miei vecchi libri ho ritrovato la grafia di alcuni versi ormai dimenticati. Wislawa Szymborska. Un poeta immenso quanto le nuvole e quanto le voragini. Devo averli ricopiati frettolosamente una sera, prima di partire, o un mattino, al rientro da uno dei miei viaggi. “Come si può parlare d’un qualche ordine, / se non è nemmeno possibile scostare le stelle / e sapere per chi brilla ciascuna?”* Quei versi costituiscono l’essenza stessa del mio rapporto con il mondo – quel rapporto che i libri hanno lentamente plasmato, perché senza di essi forse oggi non sarei l’uomo che sono, non sentirei le cose che sento, non amerei le cose che amo e non avrei gli amici che ho. I libri mi hanno dato questo e mi daranno dell’altro. E’ la sola delle religioni alle quali potrei aderire. Il mio unico credo possibile.

Devo tutto ai libri che ho letto, ma devo molto pure a quelli messi da parte, a quelli che mi hanno deluso, che mi hanno fatto pensare alla tristezza. Devo loro la mia avventura, le mie estasi e il fatto di essere oggi uno scrittore. Di aver preso il gusto di percepire la realtà tramite racconti. E’ una condizione fisiologica, qualcosa che ha a che fare con la trascendenza, come una malattia interna, e con le cartilagini, con la materia, le viscere. Qualcosa da cui non si guarisce. E per la quale non domando alcuna cura.

Le volte in cui mi sono perso, le tempeste sotto le quali la mia lanterna ha vacillato, me le sono lasciate alle spalle grazie ai libri, la loro fede ostinata e indulgente. Non potrei mai immaginare un mondo senza libri, come non potrei pensare a un mondo senza bambini, senza suoni, senza prima e dopo, un mondo senza differenze. Un mondo senza libri sarebbe un mondo omologo, rigidamente contornato, un mondo del tutto privo di alfabeti. E gli alfabeti mi sono necessari come l’aria che respiro, come le storie variopinte e odorose di colla che dispensavano incanti fantasmatici nei pomeriggi freddissimi dei miei dieci anni.

Luigi La Rosa


* Wislawa Szymborska, Salmo, in La gioia di scrivere – tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, a cura di Pietro Marchesani;